di Luca Ferro: elaboratore d'immagini audiovisive, filmautore A-professional Extraindustrial Personal Audiovisual Experiment

ESSERCI

riflessioni in margine alla realizzazione del video

Quando nel settembre dello scorso anno mi è stata chiesta dalla fondazione “A. Devoto” la disponibilità a realizzare in tempi strettissimi e con un supporto tecnico limitato, soprattutto in fase di montaggio, un video che in qualche modo potesse rappresentare la realtà di alcuni centri diurni dell’area fiorentina, con l’intento di provvedere materiale utile ad avviare il dibattito di un imminente convegno, ho accettato volentieri l’invito che mi offriva la possibilità di compiere un’ulteriore esplorazione nel territorio del disagio mentale.

In questo stesso ambito infatti, qualche anno primo, mi ero avventurato realizzando un cortometraggio “Fotografie d’amore con Erode”, che era scaturito dall’incontro, per me folgorante, con le pagine del diario di Costanza Caglià, una ex-lungodegente  dell’Ospedale Psichiatrico di S.Salvi.

Consentitemi di raccontare sinteticamente la genesi travagliata di questo primo lavoro che può contribuire a introdurre elementi di chiarezza su ciò che intendo porre come questione centrale del mio intervento: il rapporto tra la malattia mentale e la sua rappresentazione audiovisiva.

Partecipavo già allora all’esperienza di “Ipotesi Cinema”: un gruppo composto da giovani – d’età o di spirito – realizzatori, coagulato attorno ad Ermanno Olmi che dell’iniziativa si era fatto promotore. All’epoca stavamo elaborando una serie di progetti per le diverse puntate di una trasmissione televisiva commissionataci dalla Rai. In quel contesto avevo presentato al gruppo, tra le altre, l’idea di trarre un breve film ispirato alla pagine del diario di Costanza e interpretato da lei stessa, che consentisse al pubblico di scoprire la sua particolare esperienza di vita seguendola sia negli itinerari concreti del quotidiano che in quelli della sua “mite” allucinazione. La proposta, presentata con un trattamento indicativo ed il supporto di sopralluoghi audiovisivi, aveva ottenuto il consenso dell’intero gruppo a cui era però venuto a contrapporsi il parere decisamente negativo di Olmi. Il fulcro della sua obiezione, ovviamente autorevole, era che il documento cinematografico avrebbe potuto violare la dignità umana di una persona a cui mancava la piena consapevolezza del proprio modo di proporsi nella comunicazione. Quindi il progetto era stato accantonato. Eppure questa vicenda di Costanza a me continuava a parere esemplare: segno di una straordinaria capacità di coltivare un sentimento d’amore, testimoniata per di più dall’interno di una condizione di disagio estremo. Perciò qualche tempo dopo sentii come il dovere di realizzarla comunque, sia pure in una versione elettronica, parziale e condizionata dall’assoluta carenza dei mezzi tecnici altrimenti necessari. Per concludere rapidamente l’inciso dirò che il tentativo fu in buona misura coronato da successo, come ebbe a riconoscere volentieri lo stesso Olmi, e come successivamente è stato comprovato dalla reazione del pubblico, sempre interessata e partecipe ogniqualvolta il video è stato proiettato.

Comprendo perfettamente quanto, ad una platea di addetti ai lavori nel campo psichiatrico, la questione posta in questi termini possa risultare poco significativa rispetto alle urgenze e agli obbiettivi di una pratica quotidiana in cui, a quanto mi risulta, la strumentazione audiovisiva è supporto di uso oramai generalizzato nell’indagine e nella terapia.

Ma chi opera nel settore della documentaristica, con tutt’altre finalità, non può né deve (più realistico usare il condizionale: dovrebbe) sottrarsi ad una serie di valutazioni sulle implicazioni del processo comunicativo che si appresta a realizzare.

Il rispetto per ogni singola persona protagonista della rappresentazione e la capacità, oltre che l’intenzione, di saper restituire il senso autentico della realtà indagata sono (dovrebbero essere) presupposti imprescindibili ad ogni vero lavoro di documentazione.

Troppe manipolazioni, a volte anche manifestamente scoperte, attraversano i nostri teleschermi dettate dall’ossessiva ricerca del sensazionale, o dallo scoop, o dall’immagine “forte”, quando non dalla semplice malafede piegata ad interessi di parte.

Quale linea d’intervento adottare dunque quando si affronta la malattia mentale e l’universo che la circonda?

Venendo a contatto con i giovani utenti dei Centri Diurni fiorentini, e incontrando gli operatori che con essi condividono parte del loro tempo e dei loro problemi, mi è parso normale mettermi in primo luogo nella posizione d’ascolto di chi cerca di comprendere le ragioni delle difficoltà e dei disagi. Ho cercato di vincere, per quanto possibile, la legittima diffidenza degli interessati approfittando in alcuni di essi di una concomitante curiosità, e li ho lasciati parlare, se e quando volevano, senza obbligarli ad una scaletta di risposte rigidamente preordinata ma tenendo sempre presente quella che era la finalità precipua del lavoro: una ricognizione nei rapporti della relazione terapeutica. Sapendo, in parte per esperienza, in parte per intuito, che la verità della condizione umana, forse di questa condizione in particolare, non sempre si manifesta con le parole, attraverso un discorso, ma più spesso nei silenzi, nelle esitazioni, nell’incertezza di uno sguardo o di un gesto, nel frammento di una frase apparentemente inconsulta.

Questo ho cercato di tenere presente in quel passaggio fondamentale per l’allestimento di qualsiasi documento audiovisivo che è il montaggio. Durante questa fase della lavorazione si devono contemperare almeno due primarie esigenze: rendere fruibile al pubblico l’intero percorso narrativo e mantenersi fedeli alle intenzioni espressive dei soggetti protagonisti; che significa restituirne l’essenza pur operando la necessaria selezione sul materiale girato per estrarne i frammenti più significativi. Il tutto dentro un quadro di successione di immagini e di parole, di accostamenti, di rimandi interni, di ritmo narrativo che ovviamente costituiscono il punto di vista del realizzatore, la sua intelligenza della situazione, ma che non devono (non dovrebbero) tradire l’autenticità della realtà indagata.

Il video ESSERCI che è stato proiettato in occasione del convegno non vuole né potrebbe proporsi come modello ideale, dato i limiti oggettivi di tempo e di mezzi già inizialmente dichiarati , cui si aggiungono quelli personali del suo autore. Più modestamente vorrebbe rivendicare una modalità d’approccio attenta e rispettosa della realtà, il tentativo di riuscire a mediare ad una platea più ampia uno spaccato della complessità delle relazioni che intercorrono tra operatori e giovani utenti nell’universo della malattia mentale.

Perché il tema proposto alla riflessione, il rapporto tra la malattia mentale e la sua rappresentazione audiovisiva, non può certo esaurirsi con un discorso di etica della realizzazione, ma pone anche -soprattutto- un interrogativo di fondo a cui è necessario dare risposta.

A cosa serve, quale utilità può rivestire – per il paziente, per gli operatori, per la società tutta – un lavoro diffuso di documentazione e di comunicazione che nasce da questa realtà e si rivolge ad un vasto pubblico?

Personalmente sono portato a ritenerlo un elemento determinante, vorrei quasi dire una frontiera di civiltà da conquistare, per dare finalmente diritto di cittadinanza al malato mentale ed al suo disagio.

C’è bisogno, anche per rendere forse più efficace l’intervento terapeutico, di creare una comunicazione che incrini l’isolamento e la separatezza in cui sono confinati i problemi soggettivi e oggettivi non solo dei pazienti ma anche dei loro familiari e del  personale psichiatrico.

C’è bisogno quindi di una maggiore confidenza, di una vicinanza reale che può derivare solo dalla consuetudine, perché poco alla volta si possano superare le diffidenze ed i timori, si possano rimuovere quelle barriere difensive che inevitabilmente conducono all’allontanamento e all’esclusione.

Un’accorta strategia mirata a questo obbiettivo che si avvalga adeguatamente del potenziale della comunicazione audiovisiva potrebbe a mio avviso creare i presupposti necessari a ribaltare pregiudizi antichi e radicati che tanto incidono sulla già precaria condizione del malato mentale, rivelandosi quindi in prospettiva vincente.

Perciò ho intitolato questo video ESSERCI.

Per alludere ad una duplice urgenza: quella di condividere innanzitutto con questi giovani l’esperienza della loro sofferenza calandosi, per quanto possibile, nei loro panni e nelle loro problematiche. Insieme a quella di assicurare loro comunque, con la realtà concreta della nostra presenza, l’indispensabile -e doverosa, e dovuta- testimonianza di solidarietà.

firenze 6.5.95                                                                     luca ferro

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