di Luca Ferro: elaboratore d'immagini audiovisive, filmautore A-professional Extraindustrial Personal Audiovisual Experiment
Per un cinema “di prospettiva”
Per un cinema “di prospettiva”

Per un cinema “di prospettiva”

Dopo tanti anni trascorsi ad arzigogolare, pasticciando, su immagini mie ed altrui credo sia giunto il momento di dare parole, tramite un VOLANTINO, termine linguisticamente meno arrogante di MANIFESTO, alle idee maturate sulla mia esperienza, che immagino contrastare con il sentire della maggior parte dei miei amici, colleghi, complici appassionati di cinema.  Ma forse, proprio perciò, curiosi di interrogarsi anche su un pensiero provocatoriamente divergente.

Per un cinema “di prospettiva”

che comprenda quelle rappresentazioni audiovisive sopratutto interessate

alle possibili, diverse, anomale angolature con cui restituire brani di realtà

o immagini  preesistenti, o rielaborate, o appositamente create

al fine di orientarle tutte ad una inedita e rinnovata espressività.

Dove l’originalità della proposta non consista più,

e sopratutto non esclusivamente,

nella sostanza descrittivo/narrativa dell’opera

ma in uno specifico modo

di “porgere” il proprio punto di vista

e di offrire ai compartecipi dell’esperienza

nuove postazioni da cui osservare, interpretare, indagare

finalmente conoscere

i fatti del mondo o dell’immaginato.

Per un cinema “di prospettiva”

che non cerchi, non crei, non necessiti di “registi”,

con tutta l’ammirazione per questi straordinari professionisti

vocati a dare ordine al caos esistenziale in cui siamo immersi.

Per un cinema che attragga piuttosto

persone, autori

capaci di osservare e di registrare,

di confondere e di giustapporre:

dal vagabondo curioso al collezionista maniaco,

dal caso clinico dispercettivo al caso umano di senile stupefazione,

dall’ipertecnico ossessivo all’inesperto autodidatta visuale.

Per un cinema inquietante,

non riconciliabile alle ragioni del mercato,

che non persegua né ordine né estetica

ma ragioni su se stesso,

dia senso e spessore

alla necessità del suo farsi.

Per un cinema che valorizzi

l’aprofessionale e

l’inestetico.

Per un cinema consapevole della sua fascinazione ma innanzitutto dei suoi limiti.

Per un cinema salubre, assennato

che tratti la cinefilia come la più esiziale

tra le malattie autoimmuni.

Appendice esplicativa:   Sulla cinefilia autoimmune
 
Da sempre ho provato un qualche fastidio per le persone, anche amici, affette da cinefilia, che non è ovviamente il semplice o particolare gradimento/apprezzamento interessamento profondo per l’espressione cinematografica nel suo complesso.
Il cinefilo (ne restituisco una versione estrema) è colui che tutto vede ed interpreta alla luce di citazioni e di rimandi all’immaginario cinematografico di ogni epoca. Colui che sublima, che delega, ad una “passione” pur  legittima, la risoluzione delle complessità, la composizione dei conflitti che attraversano la “vita vera” di ognuno di noi. Che confina esperienze, le sue, e sentimenti, i suoi, in quella platonica caverna che è la storia del cinema. Colui (colei) che si lascia divorare una parte (spesso una buona parte) del proprio vissuto da modelli idealizzati, il cui mito loro stessi contribuiscono ad incrementare. (Proprio come fanno le tante malattie autoimmuni, nel mio caso la vitiligine dedita a distruggere i melanociti di alcune zone del mio corpo).

Niente di diverso e di nuovo rispetto alle diffuse pratiche dei “fanatici” che colonizzano vari ambiti: artistici, culturali, religiosi, politici etc.
Che proprio per questo, in virtù della loro unidimensionalità, del loro dedicarsi-offrirsi- immolarsi anima e corpo sono spesso celebrati nei rispettivi ambiti: santi, eroi, genii, “artisti” o esseri umani comunque “superiori”.
Anch’io ovviamente ho apprezzato e sono riconoscente a molti di loro per la capacità che hanno avuto di arricchire di stimoli o di suggestioni la mia vita. E quella di tanti altri.

Ma ciò non impedisce in me la persistenza di una punta di fastidio mista ad un sentimento di compassione.
Fastidio perché il modello da essi incarnato renderà più “povera” ed insoddisfatta, talvolta anche sofferta, l’esistenza di tante giovani anime attratte da una prospettiva lusinghiera (dedicare tutti se stessi a qualche missione) e non priva di fascino ma distratte dalla ricerca di percorsi forse meno gratificanti, più impegnativi e maggiormente aderenti al proprio reale.
Compassione perché nell’unica, transitoria esperienza che ci è data di affacciarsi a quella che chiamiamo “vita” il concreto, il materiale, ciò che sondiamo con i nostri 5 sensi è quello che ritengo essenziale a dare autentico significato al vissuto di ciascuno, sulla cui base  dovrebbe necessariamente innestarsi ogni forma di rielaborazione intellettuale.

In conclusione banalmente: Primum vivere, deinde philosophari.
Troppi cinefili, dal mio punto di vista, hanno preferito abitare piuttosto che nella realtà nei suggestivi mondi delle mitologie cinematografiche, confinando lì l’espressione del loro potenziale creativo.
Per questo forse in maggior parte, pur amando qualsiasi genere di film, gli “allagati di cinema” hanno disdegnato ed insistono a sottostimare l’universo banale, quotidiano, semplice, ingenuo e ripetitivo del cinema familiare.
Un cinema brulicante di nulla e di vitalità. In cui la rete delle “relazioni” e dei “fatti” la fanno da padrone e dove per le mitologie non esiste alcun diritto ne prospettiva di cittadinanza.

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