di Luca Ferro: elaboratore d'immagini audiovisive, filmautore A-professional Extraindustrial Personal Audiovisual Experiment
Diaristica ed autobiografia nel Cinema Privato
Diaristica ed autobiografia nel Cinema Privato

Diaristica ed autobiografia nel Cinema Privato

Si è già diffusamente argomentato sul catalogo della scorsa edizione del festival della precipua vocazione diaristico -autobiografica- memorialistica con cui si caratterizza quella tendenza dell’espressione audiovisiva contemporanea che abbiamo proposto d’individuare come “Cinema Privato”.

L’iniziativa di riproporre, a ventisette anni dalla prima proiezione e a 38 anni dal tournage dei primi rulli di cui il film si compone,  i “Diaries” di Ed Pincus vuole costituire stimolo ineludibile a porre la questione dei modi in cui diaristica ed autobiografia si siano manifestate nella sperimentazione cinematografica della seconda metà del ‘900 e dei caratteri che la collegano e allo stesso tempo la distinguono rispetto alla pratica audiovisiva privata contemporanea.

In questa breve nota non si tratta di entrare nel merito dell’opera di Pincus, che pure è stata al centro di controverse valutazioni (Vincent Canby sul New York Times; Ross McElwee sulla rivista “Documentary”). Né di esaminare l’intero panorama di coloro che si sono serviti del medium cinematografico per registrare tratti di vita personale, sociale, emotiva e/o riflessiva. Basterà evidenziare, accanto ai nomi universalmente noti in campo sperimentale di Stan Brakhage e di Jonas Mekas, quello di Marie Menken la vera antesignana del genere che con il suo Notebook, edito nel 1963 ma frutto di un impegno di ripresa ventennale, costituisce il termine postquam si può iniziare a parlare di una diaristica cinematografica.

A meno di non voler considerare nell’ambito diario/memorialistico l’intero patrimonio di home movies (mi riferisco al puro girato non alle eventuali e successive rielaborazioni che lo rendono altra cosa) la cui ragione d’essere deriva proprio dall’esigenza di fermare/memorizzare momenti di vita familiare e relazionale considerati particolarmente significativi.

Ci pare tuttavia ragionevole situare in un ambito contiguo ma parzialmente differente tale universo cinefamiliare per le diverse intenzionalità che presiedono al suo farsi e che in linea di massima spogliano lo sguardo dell’operatore della sua singolarità, finendo per fargli assumere il punto di vista più condiviso dalla cerchia familiare e/o amicale. Quella stessa cerchia per cui e, in ultima analisi, da cui il film viene realizzato. Come sostiene Roger Odin, si potrebbe dire che il vero autore del cinema di famiglia è lo stesso nucleo familiare.

Viceversa tutta la tradizione diaristica si caratterizza per la singolarità dell’autore: il quale alla selettività, già eloquente, della registrazione di eventi, di pensieri, di fatti, d’incontri quasi sempre accompagna la notazione degli stati d’animo percepiti. Così almeno nel genere della diaristica letteraria e con modalità leggermente diverse nella sua manifestazione cinematografica.

Questo apre però la questione, già lucidamente affrontata e a suo modo risolta da Mekas, che possiamo porre in questi termini: differisce il diario scritto dal diario filmato? L’uno presuppone una qualche distanza dagli eventi e, di conseguenza, selezione e riflessione. L’altro, il diario filmato, implica contestualità tra l’evento e la sua registrazione.

“Ho pensato ad altre forme di diario, in altre arti. Quando tu scrivi un diario, per esempio, ti siedi, di sera , da solo, e rifletti sulla tua giornata, ci ripensi. Ma nel girare, nel prendere degli appunti con la camera, la vera sfida sta tutta sul come reagire con la cinepresa all’istante, nel momento in cui le cose accadono; in quale modo reagire perché il girato  rifletta cosa provo in quel preciso momento… (…) All’inizio pensavo che ci fosse una differenza strutturale tra il diario che uno scrive di sera e che implica un processo di riflessione, e il diario filmato. Nei miei diari filmati pensavo di fare qualche cosa di diverso: stavo catturando la vita, frammenti di essa, così come accadeva. Ma realizzai molto presto che non c’era poi nessuna differenza. Quando sto girando sto anche riflettendo. Pensavo di stare solo interagendo con la realtà attuale. Non ho molto controllo sulla realtà dopo tutto, e ogni cosa viene determinata dai miei ricordi, dalla mia memoria. Così  che questo modo di girare era anche divenuto un modo di riflettere.” [1]

SITNEY, P.Adams, The Avan-Garde Film: A Reader of Theory and Criticism, Antology Film Archives, New York, 1978, (ultima edizione 1987), pp. 191-192

Dunque, secondo Mekas, nessuna differenza. Tuttavia, a nostro avviso, anche quando volessimo concedere l’equipollenza tra una restituzione a posteriori dei fatti mediata dalla riflessione e la registrazione contestuale dei medesimi anch’essa filtrata da una sorta di “pensiero” che si radica nell’esperienza e guida la reazione istintiva del filmmaker, anche volendo concedere questo resta il problema non secondario che il girato diaristico non può essere assimilato al suo analogo scritto per via di una diversa dinamica selettiva. Infatti nel testo di un diario non confluiscono tutti i dettagli che attraversano la mente dell’autore: i ricordi ed i sentimenti sono quantomeno ripuliti dal “rumore” spesso insignificante che ogni realtà produce. Il testo, anche nei casi estremi, per quanto sgrammaticato, non include se non ciò che l’autore consente. La pellicola invece registra non solo ciò che (o nel modo in cui) talvolta il filmmaker non vuole, o non vorrebbe, ma per di più anche ciò che non vede proprio e di cui solo successivamente potrà rendersi conto.

Per questo ci appare più corretto ipotizzare che non è l’atto di filmare in sé, fosse pure quotidiano, a comporre una diaristica audiovisiva, ma una qualche successiva riconsiderazione dei materiali stessi, un qualche intervento di depurazione, un editing minimale fino al limite (paradossale) della pura giustapposizione cronologica che tuttavia confermi la consapevolezza ed espliciti il consenso dell’autore ai fotogrammi inseriti. Non si dà infatti tradizione diaristica in cui l’autore non sia responsabile e consapevole di ogni elemento inserito. A meno che, proprio in questo, non si voglia leggere l’originalità e la peculiarità della diaristica audiovisiva.

Sostanzialmente simile al modello letterario è invece la transizione da scrittura diaristica ad autobiografica. In entrambe le pratiche si dà luogo, con maggiore o minore autenticità poco importa, ad una (ri)costruzione dell’immagine del proprio sé, relativa ad un tratto esistenziale più o meno ampio (una stagione specifica della vita piuttosto che il passato nella sua interezza), in grado di restituire e/o tramandare ad altri il senso che noi stessi desideriamo (o crediamo di) attribuire alla nostra esistenza. Perché in definitiva questo soprattutto distingue i due generi: che il diario è fondamentalmente un dialogo con se stessi, anche quando fosse prevista o prevedibile la sua pubblicazione, ed accoglie quindi, sotto il profilo stilistico, ogni tipo di ellissi o di salti temporali o di riferimenti apparentemente criptici ma del tutto eloquenti per l’autore; l’autobiografia invece si rivolge in modo esplicito ad un pubblico, per quanto numeroso od esiguo possa risultare, e presuppone una organizzazione selettiva ed accurata di ciò che si narra e/o si mostra, dove ogni elemento deve risultare funzionale alla strategia narrativa prescelta e coerente alla produzione di senso desiderata. Si potrebbe sostenere, in termini fotografici, che il diario sta all’istantanea come la biografia sta allo scatto posato.

Fatte queste precisazioni  possiamo affrontare la questione che ci siamo posti all’inizio: i modi in cui il Cinema Privato propone oggi forme di diaristica e di autobiografia audiovisiva manifesta qualche novità rispetto al passato?

A questo interrogativo riteniamo possibile una risposta decisamente affermativa.

Non si tratta naturalmente di entrare nel merito di valutazioni né estetiche né di carattere creativo. Le opere, del passato e del presente, frutto di un ingegno espressivo sono ciclicamente soggette a sopravvalutazioni, sottovalutazioni e rivalutazioni figlie di mode transitorie. Solo il tempo, accompagnato in qualche caso dalla fortuna, determina il riconoscimento del loro autentico valore.

A noi interessa evidenziare come, rispetto alla produzione audiovisiva sperimentale della seconda metà del ‘900 alcuni elementi strutturali ad essa sottesi siano venuti modificandosi.

Con ciò determinando significativi riflessi e conseguenze.

In primo luogo:

  • Una consuetudine sempre più diffusa, specie tra le giovani generazioni, a forme di comunicazione e d’espressione audiovisiva che aprono sotto il profilo tecnico ed economico a chiunque lo desideri la possibilità di ritagliarsi lo spazio di una pratica diaristica audiovisiva (altra e alternativa alle vecchie e nuove forme di home movie) oramai svincolata da quelle competenze professionali e quelle risorse economiche che di fatto nel secolo scorso la rendevano pratica elitaria e non a caso sperimentale. Oggi una varietà già incontrollabile di materiali audiovisivi frutto di un’elaborazione privata pullulano in rete, nei siti, nei blog, nelle piattaforme dedicate alla condivisione video. Ha poco senso interrogarsi genericamente sul loro livello qualitativo, specie quando i parametri di giudizio restano ancorati ad un passato più o meno classico. Due però le certezze. Che tanto fermento produrrà nel tempo (anche breve) un rinnovarsi profondo delle forme e delle modalità espressive, come già verificatosi in ambito letterario tra 800 e 900 in seguito alla scolarizzazione di massa. E che, come nelle discipline sportive, ad un numero elevato di praticanti corrisponderanno in misura più o meno proporzionale le eccellenze. A volte capita anche il contrario: pochi praticanti, diverse eccellenze. Ma è l’eccezione, non la regola.

In secondo luogo:

  • Una realtà inimmaginabile solo qualche decennio fa:  l’accessibilità per chiunque e la disponibilità di attingere ad un repertorio potenzialmente sterminato di immagini (fisse, mobili) e di sonorità (naturali, artificiali). Un magma linguistico fluido digitalmente decentrato su di un’infinita varietà di supporti, stoccato in memorie più o meno labili, più o meno solide, fluttuante in un eterno presente tra i cavi e le onde della rete. Di cui è possibile e facile appropriarsi: per rielaborarlo e piegarlo alle proprie esigenze espressive. Attraverso cui ridefinire la propria lingua o il proprio gergo. Una miniera a cielo aperto di materia prima su cui impastare, fondere  suoni e immagini originali che noi stessi produciamo. Grezza sostanza da raffinare oppure, viceversa, puro cristallo da opacizzare, da ibridare. Una risorsa che si vorrebbe, con puntigliosa stizza delimitare, privatizzare, sottomettere all’esclusivo appannaggio della legge del  commercio globale. Quella che in nome della protezione del “diritto d’autore” vorrebbe sottrarre ad un Autore il diritto d’esprimersi: guai ad inserire anche inavvertitamente in un’inquadratura un marchio, un oggetto, un volto un suono una scritta se coperta da copyright! E che perciò, ed in parte, fa presidiare la madre di tutte le risorse da stralunati poliziotti kafkiani, da forze dell’ordine “nigerian style” che ottusamente inseguono chi si riappropria della ricchezza della propria terra sforacchiando l’oleodotto per riempire la sua tanica di benzina. Guerra di retroguardia, da giapponesi dispersi nella foresta. Il fatto è che la memoria personale, costituita essenzialmente da consapevolezze, sensazioni ed evocazioni interiori, poteva essere comunicata ad altri -fino a pochi decenni fa- generalmente solo attraverso l’immateriale organizzarsi di un racconto che tutt’al più poteva fissarsi, nero su bianco, in una pagina scritta. Oggi, nella nostra civiltà audiovisiva, una parte non secondaria dei vissuti e delle esperienze di ciascuno di noi è non solo inestricabilmente intrecciata a fotografie, film, canzoni, spettacoli, programmi radiofonici e televisivi ma spesso è anche custodita, nascosta tra le pieghe, di supporti audiovisivi in grado,in talune circostanze, di restituirci l’evento e il clima di un passato che sembrava perduto. A chi, in nome del copyright, possiamo consentire di sequestrarci il profumo della nostra madeleine?

E infine (last but not least):

  • Una sempre più acuta, flessibile e funzionale leggerezza dello sguardo. Mezzi e sistemi di registrazione delle immagini e dei suoni sempre meno invasivi, sempre meno intrusivi sempre più capaci di favorire un rapporto di spontaneità ed autenticità tra chi parla e chi ascolta, tra chi agisce e chi osserva. Non è un dettaglio secondario. Sappiamo quanto la presenza di una cinepresa/telecamera interagisca innanzitutto con il nostro stato emozionale prima ancora che con la realtà. A volte basta azionare un registratore audio, anche in perfetta solitudine, per provare imbarazzo e impaccio apparentemente ingiustificati, che derivano dalla percezione vaga ma inquietante che di ogni parola che pronunciamo rimarrà traccia, di ogni esitazione, di ogni possibile incertezza, di ogni possibile errore, minacciando di rivelare tutta la nostra fragilità. Figurarsi quando ci troviamo di fronte o dietro una cine/videocamera! Questa consapevolezza è quella che ci porta a diffidare di certa documentaristica che registra e restituisce “dal vivo” i conflitti interpersonali o i drammi individuali, come se il solo avvertire la presenza di una telecamera non inducesse i protagonisti ad una qualche forma di enfasi manipolatrice pur nell’espressione di sentimenti reali … O che, viceversa, arriva a suscitarci un’impressione di orrore, di sciacallaggio quando ci sbatte sotto gli occhi un’umanità talmente annichilita nella sofferenza da non essere in grado di percepire nient’altro che il proprio dolore: queste sono le occasioni -purtroppo non infrequenti- in cui ci poniamo la questione su quanto l’assistere sia complice del torturare, di quanto la cinepresa sia solo passivo strumento di ripresa e non anche parte attiva nel procurare offesa e tormento aggiuntivi. Quale altro se non questo timore di ferire o comunque di poter dispiacere ai propri cari  è il motivo sostanziale che (auto)confina l’ordinaria produzione home movie entro quella specie di riserva indiana degli stereotipi della rappresentazione del quotidiano? Dove i familiari risultano, quasi sempre, sereni, sorridenti; inseriti in contesti “esotici” o gradevoli, in ogni caso decorosi; protagonisti di ricorrenze felici (matrimoni, nascite, compleanni) o che ambirebbero quantomeno ad apparire tali. E’ vero, i bambini a volte piangono: ma si sa, i marmocchi spesso sono rompiballe ed i genitori talvolta li filmano proprio per poterci scherzare sopra. Qualche volta, più raramente, capita anche vederli litigare o menarsi, ma in fondo sono come cuccioli che si azzuffano…  Eppure dentro quegli stessi fotogrammi i genitori mai piangono, al massimo sono commossi, di certo non litigano ed è impensabile di vederli agire uno scontro fisico. Limitazioni imposte da motivi estetici, si potrebbe pensare, in certi momenti non risulterebbe bello…   Qualcuno ha presente l’incanto imprevedibile che promana dal proprio uomo o della propria donna in certi attimi d’assoluta disperazione? Sarà mai possibile averne copia da conservare e da inserire nel proprio diario digitale, senza tuttavia interromperne il climax ma operando con una discrezione pari ad un batter di ciglia? Ancora no, forse. Ma il Cinema Privato già è incamminato su questa strada. Aspira alla stessa libertà d’esplorare di cui godono la parola scritta o l’immagine schizzata sul blocco. Alla stessa discrezione. Senza procurare offesa, né chiedere permessi, né liberatorie, né creare difficoltà nella relazione tra colui che osserva e l’oggetto della propria attenzione. Senza dover ricorrere alla finzione. C’è già vicino. Molto, molto vicino …

Questi  alcuni dei tratti più significativi e delle potenzialità a cui si apre il Cinema Privato nelle prospettiva a lui particolarmente congeniale di una scrittura diaristica, autobiografica e, pare opportuno aggiungere, anche biografica in senso lato, ovvero nella direzione (non storico specialistica) di raccogliere racconti/brani di vita altrui. Al programma della sezione “Diaries and family movies” di questa edizione afferisce un numero limitato di realizzazioni che tuttavia riescono a coprire (ad esaurire ovviamente no) tutto l’arco delle riflessioni sviluppate. Questo è già un ottimo presupposto. L’opera di Pincus, seppur per certi aspetti di frontiera nella sua ideologica radicalità, racconta l’utopia (fallimentare) pre e post sessantottina di razionalizzare l’esistenza armati di cinepresa. Rappresenta il tentativo estremo di una diaristica che imbocca una strada autobiografica scommettendo che le tecniche del cinema diretto piegate a scrutare l’ambito intimo e familiare possano rendere ragione alla scelta di voler realizzare un nucleo familiare “aperto” e anticonvenzionale. L’opera, a nostro avviso, anche nella caduta della sua ipotesi mantiene un suo drammatico vigore ed è testimonianza audace e rappresentativa di un nobile abbaglio generazionale. Ma oggi la sua visione invece di stupirci per la semplicità (davvero d’avanguardia allora) con cui immagini e parole vengono registrate senza l’ausilio di una troupe e di attrezzature ingombranti, ci rivela piuttosto che quelle scene hanno un’agilità da elefante se confrontate con le immagini prodotte dai giovani del progetto “VedoZero” di Andrea Caccia che, al contrario, hanno la leggerezza e l’ondivaghezza del volo di una farfalla. I lavori di Michael Pilz “A Prima Vista” e di Michelangelo Buffa “Nel giardino terrestre” presentano invece modalità di realizzazioni autobiografiche in cui si incarna, seppur con stile diverso, la linea evolutiva della sperimentazione novecentesca: che ibrida chimica ed elettronica, fotogramma e frame, sistemando in un ordine definitivo (per quanto di definitivo possiamo attenderci da un Cinema Privato, strutturalmente aperto alla rielaborazione e alla rilettura costante dei propri materiali) realizzazioni che avevano goduto in precedenza di collocazioni autonome e/o diverse. Con una spiccata cura del versante estetico e fotografico in Pilz, con un gioco di richiami colti e cinefili in Buffa: entrambi accomunati da una ricerca interiore che guarda verso oriente, tesa a sottrarre le immagini e le sequenze realizzate al dominio effimero del tempo biografico per accordarle piuttosto con il respiro profondo e segreto della natura vivente.


[1]          “I have thought about other forms of diary, in other arts. When you write a diary, for example, you sit down, in the evening, by yourself, and you reflect upon your day, you look back. But in the filming, in the keeping a notebook with the camera, the main challenge became how to react with the camera right now, as it’s happening; how to react to it in such a way that the footage would reflect what I feel that very moment. (…) At first I thought that there was a basic difference between the written diary which one writes in the evening, and which is a reflective process, and the filmed diary. In my film diary, I thought, I was doing something different: I was capturing life, bits of it, as it happens. But I realized very soon that it wasn’t that different at all. When I am filming, I am also reflecting. I was thinking that I was only reacting to the actual reality. I do not have much control over reality at all, and everything is determined by my memory, my past. So that this “direct” filming becomes also a mode of reflection.”

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