di Luca Ferro: elaboratore d'immagini audiovisive, filmautore A-professional Extraindustrial Personal Audiovisual Experiment
Testo Convegno Circolo Rosselli
Testo Convegno Circolo Rosselli

Testo Convegno Circolo Rosselli

L’occasione offerta da Vito Zagarrrio di fare un nuovo punto sulla situazione del Cinema a Firenze ed in Toscana, a distanza di poco più d’un anno dallo scambio di opinioni avvenuto in Palazzo Vecchio, si presta, almeno nel mio caso, per una riflessione meno legata all’emotività del momento ed in grado, mi auguro, di segnalare alcune questioni “cruciali” di cui, tra chi si occupa a vario titolo di comunicazione audiovisiva,  raramente e/o apertamente si discute.

Ritengo nel mio caso necessario premettere una convinzione ed una spiegazione.

La convinzione è che ogni contributo bene farebbe a focalizzarsi soprattutto su “fatti” e su conseguenti proposte piuttosto che limitarsi all’espressione di velate allusioni o di nobili auspici. Può risultare poco elegante parlare di fatti nudi e crudi specie quando questi ci riguardano personalmente e tuttavia perché un confronto possa risultare proficuo è necessario che le persone intervengano prevalentemente su questioni di cui hanno diretta esperienza in uno spirito di assoluta franchezza.

La spiegazione  consiste in un essenziale accenno autobiografico, legittimamente dovuto ai più che niente sanno di me, dal momento che non sono né studioso, né autore, né organizzatore di “chiara fama” seppure da più di trent’anni abbia a che fare con la comunicazione audiovisiva. In breve: nel corso degli anni ’70, ho realizzato film sperimentali, a partire dall’uso e dalla rielaborazione di materiali genericamente definibili come “familiari”. Negli anni ’80 ho curato la realizzazione per RAI 3 di un  programma imperniato sull’uso di tali materiali.  Successivamente ho preso parte  all’avventura di “Ipotesi Cinema” promossa da Olmi e Valmarana. Nella seconda metà degli anni ’90, ritiratomi dall’insegnamento liceale, mi sono impegnato a diffondere la pratica audiovisiva tra gli adolescenti realizzando sia un programma televisivo che organizzando corsi per le scuole superiori del territorio provinciale. Nell’ultimo quinquennio mi sono dedicato prevalentemente all’analisi ed alla definizione di una forma audiovisiva che reputo di straordinaria emergenza, il Cinema Privato, allestendo rassegne ed occasioni di confronto e realizzando video orientati in questa direzione. Da alcuni anni conduco un laboratorio di “Cinema Privato”  indirizzato agli studenti del DAMS di Firenze.

Data la premessa e la complessità delle tematiche mi limiterò a considerare solo alcune tra le diverse questioni poste da Vito Zagarrio, privilegiando quelle in cui l’opinione che ho maturato deriva da una specifica e diretta esperienza.

Area  “educational”

Lo scorso anno, accennando all’argomento, lo stesso Zagarrio poneva l’accento sull’ampia diffusione, tra le giovani generazioni, degli strumenti di ripresa e di editing digitale. Verissimo: però se il dato è per certi versi incoraggiante, per altri tuttavia risulta assai ambiguo. E infatti se la duttilità del video digitale (dalle telecamere MiniDV ai telefonini) e l’esplosione di piattaforme di condivisione di materiali audiovisivi online stimolano tanti giovani a cimentarsi con la pratica audiovisiva a maggior ragione, oggi, risulta poco giustificabile, da parte delle agenzie educative pubbliche, mantenere (programmaticamente, verrebbe da dire)  in una condizione di analfabetismo audiovisivo la stragrande maggioranza degli studenti che si licenziano dalle scuole superiori. Risulta superfluo in questo contesto chiarire come l’analfabetismo non inibisca la capacità del singolo di cogliere il processo comunicativo quanto piuttosto l’abilità di produrlo: infatti solo il sapersi esprimere audiovisivamente rende i soggetti protagonisti consapevoli e non, solo ed esclusivamente, terminali passivi della comunicazione.

E’ una questione educativa cruciale di cui curiosamente quasi nessuno parla, benché tutti sappiano che la massima parte delle conoscenze raggiungano oggi gli individui attraverso media audiovisivi.

Non fa strano, per esempio, che in nessun ordine di scuola esista una materia di studio obbligatoria denominata: comunicazione audiovisiva. E che non esistano, almeno ufficialmente, maestri che insegnano a scrivere (e dunque a leggere) audiovisivamente. Pare che chi elabora le strategie pedagogiche nazionali ritenga tutt’oggi preferibile che tutti gli studenti, dagli aggiustatori meccanici ai liceali classici, approfondiscano nei rispettivi trienni conclusivi gli aspetti artistici della comunicazione letteraria (non so, tanto per fare un esempio: da Jacopone da Todi agli ermetici del ‘900) piuttosto che impadronirsi di quegli elementi costitutivi del linguaggio audiovisivo che consentirebbero loro di interagire attivamente ed alla pari con la realtà comunicativa in cui vivono immersi. Di più: quando e dove si ipotizza una qualche riforma scolastica spesso si pensa all’introduzione di una “storia del cinema” tra le materie curricolari; ed anche i tanti e benemeriti docenti che cercano di ovviare in qualche modo a questa lacuna educativa quasi sempre si limitano ad attivare cineforum od a promuovere dibatti sui film che certamente possono contribuire alla crescita culturale dello studente ma non spostano di una virgola la questione dell’analfabetismo audiovisivo. Perché il punto è e rimane: per comprendere in profondità un qualsiasi linguaggio, una qualsiasi disciplina (musicale, artistica, letteraria, o perfino sportiva nelle sue molteplici declinazioni) basta la conoscenza di alcune delle sue espressioni, sia pur di massimo rilievo, o risulta indispensabile anche una pratica in prima persona dei suoi elementi di base? Salvo assai rare eccezioni, per la gente comune qualsiasi vera conoscenza non può prescindere dall’esperienza: forse non tutti gli innamorati riusciranno a penetrare le pieghe dell’amore contrastato e contraddittorio che stringe Lancillotto a Ginevra, ma è certo che la vicenda risulterà del tutto incomprensibile per chi mai abbia vissuto una qualsiasi passione d’amore.

Posta in questi termini la questione dell’alfabetizzazione audiovisiva delle nuove generazioni è chiaramente tema di rilevanza e di competenza nazionale. E tuttavia se guardiamo alla realtà del nostro territorio alcune considerazioni ritengo che risultino utili se non addirittura necessarie.

Per circa un decennio, una volta ritiratomi dall’insegnamento attivo, ho voluto affrontare direttamente la questione impegnandomi, con una buona dose di sana incoscienza, ad inventare un contenitore  che consentisse agli adolescenti di vivere e di conoscere dall’interno la comunicazione audiovisiva nei suoi diversi aspetti e che fosse in grado di stimolarli a produrre autonomamente materiali audiovisivi elementari (storie brevi, interviste su argomenti vari, reportage di gite o d’ordinaria quotidianeità scolastica etc.) senza alcuna preoccupazione per gli standard qualitativi, solo mettendo nelle loro mani gli strumenti (piccole videocamere analogiche all’inizio, poi digitali) insieme a qualche buon consiglio. Da quest’attività sono derivate nel tempo:

  • una trasmissione televisiva regionale “ZiC, la zanzara in classe” a carattere settimanale (in media dalle 20 alle 25 puntate di un’ora all’anno): i primi anni in diretta e successivamente –per mancanza di risorse- preregistrata.
  • una serie di corsi di alfabetizzazione audiovisiva rivolte a singole classi di numerosi Istituti Superiori della Provincia di Firenze
  • un numero zero di “Videomagazine”, realizzato con il contributo di tanti studenti appartenenti a scuole diverse della Provincia di Firenze e distribuito su DVD uno per classe, che –nel progetto compiuto- avrebbe dovuto assumere cadenza quadrimestrale con il fine di mettere in relazione studenti di scuole e di provenienze sociali diverse e di stimolarli alla competizione produttiva di materiali audiovisivi.

Per quanto mi risulta niente di comparabile, in termini di originalità delle proposte e delle strategie pedagogiche messe in campo,  è mai stato realizzato né sul territorio toscano né –ragionevolmente ritengo di poter dire- altrove.

Ciò che so con certezza, e che in questo contesto può essere opportuno oggetto di riflessione, è che questo impegno, a prescindere da qualsiasi giudizio di merito, è stato nelle migliori circostanze tiepidamente sostenuto, in qualche caso fastidiosamente subito, alla prima occasione propizia soffocato –e non uso casualmente questo verbo- senza mai, sottilineo mai, da parte delle agenzie pubbliche che pure erano state coinvolte nelle diverse iniziative, sentire la necessità di un confronto sul tema, di una pubblica riflessione che avrebbe potuto benissimo svilupparsi magari criticando le mie specifiche modalità d’intervento, magari decidendo di compiere scelte anche diametralmente diverse e/o ipoteticamente migliori, ma che avrebbe dovuto tenere comunque conto della rilevanza del problema e farsi carico di una risposta appropropriata.

Niente di tutto questo. Un’esperienza unica, un’esperienza originale, un’esperienza discutibile quanto si vuole ma che tentava e proponeva possibili risposte ad un problema oggettivo non è stata mai apertamente contestata: perché, per contestare, un qualche argomento, sia pur pretestuoso, bisogna agitarlo. Quest’esperienza pluriennale non è mai stata neppure discussa: semplicemente si è scelto d’ignorarla.

Con un’assessora, intelligente disinteressata e poco accomodante (però: ogni tanto il miracolo accade!), repentinamente caduta chissà perché in disgrazia, avevamo progettato un convegno per dibattere questo tema a livello nazionale, per confrontarsi sul lavoro da noi fatto e sollecitare idee, opinioni, critiche e proposte. Quando il Presidente dell’Istituzione medesima, autonominatosi assessore ad interim al posto della scarsamente allineata, si degna di ricevermi scopro che non sa niente del lavoro svolto. Si limita ad ascoltare con l’aria del giovane studente, un po’ attento, un po’ annoiato. Poi mi dice: m’informerò, le farò sapere presto e si eclissa. Per sempre. Inutile, ovviamente, sollecitare.

In un contesto dove si ambirebbe a fare il punto sulla situazione dell’audiovisivo in Toscana questo “interno di Palazzo” abbastanza recente mi pare simbolicamente rappresentativo non tanto del singolo personaggio quanto di un costume politico sciaguratamente più ampio.

Rivoluzione digitale, Festival, ruolo di Mediateca Regionale Toscana.

La seconda questione che intendo affrontare, rispetto alla quale ho avuto occasione recentemente di operare anche in rapporto con le Istituzioni del territorio, ha a che vedere con la cosiddetta rivoluzione digitale.

Non intendo con questo termine riferirmi alla digitalizzazione dei segnali televisivi che renderà presto possibile una moltiplicazione dei canali disponibili nell’etere italiano, fatto questo che di per sé certo non contribuisce, nel medio termine, a risolvere alcun problema di duopolio esistente né di connessi -sospetti e sospettati- conflitti d’interesse.

L’autentica rivoluzione digitale dei giorni nostri consiste nell’evento, davvero epocale, d’aver reso accessibile e disponibile per chiunque l’elaborazione di una comunicazione in forma audiovisiva: produzione, editing, distribuzione tutto a portata di mano e di mouse. La scrittura audiovisiva che si fa “privata” non solo in riferimento alle modeste risorse economiche necessarie per la realizzazione ma anche perché  consente al singolo di gestire in solitario l’intero arco produttivo. Da questo fenomeno deriva l’emergere di una forma che io chiamo “Cinema privato”: una modalità espressiva che conferma e allo stesso tempo profondamente innova (e sempre più innoverà) temi, motivi e linguaggi peraltro già rintracciabili,  in filigrana nell’intero arco della storia del cinema, storia a cui ci si riferisce nel senso più ampio del termine senza costringerla forzatamente nei soli generi della “fiction” o del “documentario”.

Naturalmente si può dissentire da questa lettura, attribuire al fenomeno un diverso rilievo, ritenere che certe evoluzioni della tecnica non sempre incidano sostanzialmente su ciò che l’uomo produce. Esistono reali e significative differenze tra uno scrittore che utilizzi la stilografica piuttosto che la macchina da scrivere o il computer per produrre i suoi testi? Pare ragionevole rispondere di no.

E tuttavia ritengo che il caso del “Cinema privato” sia del tutto diverso. Per certi aspetti, con parallelismo certamente anomalo, potrei paragonarlo all’avvento sul mercato automobilistico italiano della 500. Di per sé, quest’utilitaria, non costituiva una rivoluzione: infatti il trasporto pubblico e privato esisteva già da molti decenni, anche nella sua declinazione automobilistica. L’unica novità, apparentemente, consisteva nel prezzo dell’oggetto che consentiva a tutti (o quasi) il sogno, sempre più realizzabile, di possedere una propria macchina. E invece, nel breve volgere di pochi anni, le conseguenze si sarebbero rivelate enormi, cambiando usi, costumi, mentalità, strade, panorami, paesaggi, territori.  Grazie alla 500 ogni italiano ebbe la sua patente, imparò ad esplorare il territorio con i suoi occhi ed a farsi un’idea della propria terra, della propria regione, del proprio paese.  Tutto ciò s’inseriva in un contesto più ampio di trasformazione sociale, questo è vero. Tuttavia la 500 aiutò, e molto, questo processo.

Analogamente, si fa per dire, attraverso la pratica del “Cinema Privato” ogni persona può e potrà raccontare una sua storia, proporre una sua testimonianza, rielaborare memorie ed emozioni utilizzando la forza suggestiva, immediata e complessa, del linguaggio audiovisivo;  recuperando -alla lettera- la centralità del proprio punto di vista insieme all’originalità, intima e irripetibile, del proprio sguardo.

Ma torniamo al punto e sintetizziamo gli eventi connessi. Nel luglio 2005, in seguito ad un progetto di “Rassegna di Cinema Privato” da me inviato diversi mesi prima, ricevo dall’allora direttore di MTR Roberto Salvadori l’incarico a preparare il programma di una manifestazione che si dovrà svolgere nel novembre successivo in cinque giorni tra Siena, Firenze e Pisa. Nasce così la prima edizione delle “Giornate del Cinema Privato” in cui mi avvalgo della straordinaria collaborazione di due giovani studiosi: Paolo Simoni e Gianmarco Torri.  Riusciamo con pochissimi mezzi a coinvolgere un gruppo internazionale di esperti, a proporre e rivisitare con un taglio inedito opere di autori affermati come di filmaker poco noti. Raduniamo un buon numero di giovani studenti da cui deriveranno diverse tesi di laurea su argomenti correlati alla rassegna stessa. Insomma parrebbe: un’idea originale, un buon lavoro, un meritato successo. Riceviamo formali segni di compiacimento da Roger Odin e Adriano Aprà che sono tra i massimi esperti dei materiali su cui lavoriamo e che di festival ne hanno fin troppa esperienza. Dunque fin dall’inizio del 2006 ci mettiamo al lavoro per una seconda edizione che possa contare su qualche risorsa in più per consentire una ricerca ed una progettazione adeguata. In questo senso mi attivo perché MRT inizi finalmente un’attività di catalogazione, raccolta e salvaguardia di tutte quelle pellicole realizzate dai privati sul territorio toscano, che costituiscono un patrimonio audiovisivo prezioso ed insostituibile (e di cui il Cinema Privato ampiamente si avvale), in larga misura già compromesso per la deperibilità dei materiali e bisognoso -per ciò che ancora resta- di tutela, pena la loro scomparsa.  Quale altra tra le diverse funzioni dovrebbe risultare prioritaria per una fondazione che si chiama Mediateca Regionale Toscana se non quella di tutelare, mettere al sicuro innanzitutto il patrimonio audiovisivo del proprio territorio? Parrebbe l’inizio di un percorso ed invece ne è già la fine: a seguito dell’avvicendamento alla direzione,  MRT dopo un temporaneo rinvio rinuncia a proseguire l’esperienza avviata con “Le giornate del Cinema Privato” e contestualmente viene a cadere ogni progetto di raccolta e d’archiviazione dei materiali cinematografici privati. La mail che nel febbraio 2007 comunica e formalizza questa decisione parla per Mediateca di altre priorità. Legittima come motivazione, non ne discuto. Forse un po’ generica. Ma tant’è.

Ecco: le vicende, che ho riportato con l’assoluta parzialità di chi vi è rimasto  coinvolto in prima persona, non servono in questo caso a distribuire meriti e responsabilità (davvero non è questa la sede!) ma solo a spiegare dove originano alcune mie perplessità ed alcuni miei convincimenti.

La domanda a cui non sono mai riuscito a dare una risposta certa è: ciò che accade nell’ambito della cultura ed in particolare di quella audiovisiva entro i confini del nostro territorio è frutto di una riflessione e di una strategia sinergicamente elaborata dalle Istituzioni preposte o piuttosto di interventi abbastanza casuali, spesso scoordinati, di estemporanei punti di vista talvolta determinati da compiacenze ad personam? Pur senza alcun desiderio di veder marciare le Istituzioni “come un sol uomo” non sarebbe per lo meno auspicabile un coordinamento interistituzionale che evitasse una parcellizzazione contraddittoria d’iniziative? Si potrebbero individuare alcuni, magari pochi, obbiettivi su cui concentrare utilmente una parte significativa delle risorse per ottenere, almeno in quella direzione, risultati importanti?

E comunque chi sono questi (molti, pochi) strateghi? In quali luoghi confrontano apertamente, pubblicamente le linee d’intervento che vanno elaborando? Hanno antenne sensibili dentro la società e bravi cacciatori d’idee nei loro uffici?  Quali sono i reali input politici che ricevono al di là delle pubbliche e generiche professioni di alti principi spesso barattati nella banale ricerca di un facile (facilissimo: se la suonano e se la cantano…) consenso mediatico? Quali sono gli spazi reali  -ammesso che ne esista qualcuno- riservati  a progetti, magari buoni progetti, che non si avvalgono di padrinaggi politici né del sostegno di una delle diverse congreghe (o confraternite o camarille etc.) che medioevalmente controllano, manu militari, porzioni significative di spazi anche culturali? Quanti nomi di eccellenti, o più semplicemente anche di seriamente competenti, dentro i consigli d’amministrazione delle istituzioni culturali rispetto ai prescelti per conformità politica e provata acquiescenza?

Sarà meglio porre fine a questo rosario di domande che potrebbe tranquillamente prolungarsi ad libitum, con l’unico rischio di precipitare nel tragico gorgo di un qualunquismo banale. Tragico, appunto: è così da sempre,  la regola è questa, qualche volta si dà anche l’eccezione, comunque alla fine in qualche modo le cose procedono, ma… dov’è la notizia?

Allora è più opportuno concentrarsi sulla parte propositiva.

Auspicando, per esempio, che alle precedenti perplessità vengano offerte risposte certe. Innanzitutto in termini di trasparenza. Che si dibatta perciò apertamente e pubblicamente sui principali obbiettivi da raggiungere nel settore audiovisivo. Che si stabiliscano non solo le priorità ma anche i criteri in base ai quali questa priorità viene accordata. Che si trovino modalità per raccordare, coordinare e concentrare su alcuni specifici punti le risorse economiche ed umane di Istituzioni diverse, fatta salva la possibilità di ciascuna nel mantenere piena autonomia su di una pluralità d’interventi minori in altre aree di specifica competenza. Che per raggiungere alcuni obbiettivi si aprano gare di progetti e d’idee che vedano tutti i competitori su di un piano di reale parità, di fronte a giudici obbiettivi e competenti. Già questo significherebbe un gran passo avanti, quasi un terremoto che lascerebbe forse molti, troppi senzatetto.

Ma oltre che auspici generali, sulle questioni poste desidero esprimermi con puntuale franchezza.

Linguaggio audiovisivo

Mettiamola in questi termini: in mancanza di qualche piano del governo nazionale non sarebbe opportuno che regione, provincia e comuni s’interrogassero su come intervenire sulla questione dell’alfabetizzazione audiovisiva quantomeno nei riguardi delle giovani generazioni? Pensano le nostre Istituzioni che la questione non abbia alcun bisogno di essere governata, che basti assecondare la convergenza tra l’impulso industriale e l’istintiva (e italica) capacità di arrangiarsi? Non è ancora sufficientemente chiaro quanto la storia del pifferaio di Hamelin preconizzasse l’avvento di pifferai mediatici che hanno eletto l’Italia a paese del (proprio) Bengodi? Non si parla già da qualche anno, da troppi anni di un uso perverso, distorto d’immagini e di suoni da parte di giovanissimi, del tutto inconsapevoli dei danni, anche gravissimi,  che un uso “violento” (ma sarebbe meglio dire “violante”) dello strumento audiovisivo  -anche il banale cellulare-  può provocare su individui fragili, su giovani in pieno travaglio adolescenziale? Come classificare un progetto d’intervento su questo piano: come una priorità o come uno sfizio accessorio?  E come valutare la congiura ad ignorare e la conseguente assoluta rimozione del problema?

Festival

Ogni festival nasce per proporre una pluralità di film che possono essere straordinari o da dimenticare, interessanti o sgradevoli… comunque nessun film fa male, ogni film a suo modo arricchisce, ogni film è benvenuto. Pur tuttavia  nella prospettiva di una Istituzione culturale, dal momento che le risorse non sono infinite, nasce il problema di quali manifestazioni sostenere con le risorse pubbliche. Si può accontentare un po’ tutti distribuendo le risorse a pioggia o si può puntare a favorire le manifestazioni culturalmente più vitali ed innovative.  Non esistono parametri oggettivi. E’ una decisione che implica competenza in materia, assunzione di responsabilità, scelta di strategia culturale, ambizione di trovare materiali, idee e dibattiti originali che facciano del festival e della città che li propone un punto di riferimento significativo per gli addetti ai lavori nazionali ed internazionali. In una realtà contemporanea in cui ogni metropli, ogni cittadina, ogni paese ha un suo festival cinematografico, per emrgere e non confondersi nella mediocrità non si può che puntare  sull’originalità delle proposte, sulla qualità dei materiali e sul taglio specifico di una rassegna. A Firenze non esistono né risorse, né tradizioni né strutture per porsi in competizione con festival generalisti, pure se diversamente caratterizzati, come Venezia, Roma e Torino.  Il Festival dei Popoli ha invece un passato che gli potrebbe consentire di reinventarsi un futuro importante: probabilmente la nuova direzione già si è avviata  su questa strada.  Dotato di adeguato sostegno il Festival potrebbe ambire a diventare il principale riferimento italiano per tutta la not-fiction e confrontarsi alla pari con i principali competitor internazionali, puntando all’eccellenza in alcuni specifici settori. Questo dovrebbe, potrebbe essere il Festival, l’unico vero Festival di Firenze e dell’area Toscana. Le altre manifestazioni dovrebbe restare ciò che sono: interessanti occasioni per conoscere aspetti variegati e talvolta meno noti della cinematografia contemporanea.

Premi

Quanto resisterà ancora l’abitudine abbastanza provinciale di premiare il personaggio, l’artista, senza che vi sia una motivazione stringente legata alla realtà di situazioni strordinarie o di particolari contributi dati al territorio, ma così semplicemente per il gusto di premiare,  per ospitare il personaggio noto ed andarci a cena (quei pochi selezionati), per poter inserire nell’albo d’oro dei premiati un altro nome di prestigio (magari anche noi potessimo conservare le sue impronte impresse sul cemento: come a Hollywood, come sul muretto di Alassio…).

I premi ai maestri non contribuiscono molto all’autentica cultura, non inducono a clamorose scoperte e/o ripensamenti critici,  si limitano a fotografare un successo più o meno conclamato, un regista più o meno di moda con l’aggiunta di una clausola davvero curiosa: l’obbligatorietà per il regista premiato di ritirare di persona il premio. Esclusi i morti dunque e i malati gravi. Un premio passibile di ripensamenti: “Verresti il giorno XY a ritirare il premio?”  “Mi spiace, proprio in quei giorni ho già un impegno.” “Peccato, allora niente premio” E così avanti seguendo una lista in cui l’uno, più o meno, vale l’altro. Spielberg non è sull’albo dei premiati? Magari non poteva… Nanni Moretti invece gli tornava comodo… e Jean Marie Straub?  Non si merita il premio o non gli piace venire a Firenze?

Qualcosa a che vedere con la cultura?  Marketing soprattutto: premi che premiano chi fa pubblicità al premio… roba da mal di testa.

E’ questa la logica su cui si fondano alcune priorità?

Filmcommission e Casa del cinema

Io la vedo così: Il territorio toscano è già famoso in tutto il mondo: non saranno certo 10 o 50 inquadrature di un film a renderlo più appetibile. Se Filmcommission vuol dire mostrare la buona educazione di favorire chi viene in Toscana a girare un film, di semplificargli il lavoro e la burocrazia, di evitargli gran parte dei taglieggiamenti riservati ai turisti (ma anche agli stessi toscani residenti) in cui privati operatori turistici e pubbliche amministrazioni hanno affinato l’ingegno, questa mi pare una lodevole attività. Ma sono scettico quando si parla d’investimenti, di ritorni economici e di ricadute professionali.

Dubito che organizzare ricevimenti a Cannes risulti -alla fine della fiera-economicamente vantaggioso se non per chi vi ha preso parte. Turisticamente parlando la Toscana non ha niente a che vedere col Piemonte. Ed anche sotto il profilo della tradizione tecnico professionale nel cinema e nella televisione Torino ha sempre avuto una sua importanza, maestranze specializzate ed anche autonomia produttiva, mentre Firenze ha sempre sostanzialmente gravitato su Roma che peraltro oggi si raggiunge in poco più d’una ora di treno.

Infine “La casa del Cinema”: il nome suona bene ma qui a Firenze concretamente come dovrebbe configurarsi ? Si pensa ad un luogo funzionale adatto a raccogliere gli amanti del cinema nelle sue tante declinazioni, dove il sostegno pubblico consente di vedere materiali che altrimenti non troverebbero adeguata visibilità, a cui critici, studiosi e cineasti di passaggio dalla città possano fare riferimento per mostrare e discutere il proprio lavoro, dove i giovani che vorrebbero fare o studiare cinema possano incontrarsi con i meno giovani che il cinema già lo fanno o lo studiano e magari offrirsi per collaborare?  Un luogo utilizzabile per stages e seminari d’aggiornamento professionale, un laboratorio, un incubatore di idee e di progetti audiovisivi?

Oppure si pensa alla sala di prestigio da esibire come fiore all’occhiello che inevitabilmente per gli alti costi di gestione verrebbe condannata a barattare lo splendore dei velluti con la carenza cronica di risorse per le vere finalità istituzionali e le attività concrete?

Bene credo di essermi dilungato anche troppo.

Ho sviluppato alcune riflessioni in relazione agli argomenti proposti che derivano dalla mia esperienza. Qualcuna spero possa rivelarsi utile. Se mai un domani dovesse aprirsi un confronto. Altrimenti non importa: restiamo alla finestra e guardiamo il panorama. La terra toscana, in fondo, qualcosa di straordinario, d’inaspettato è sempre stata capace di mostrarcelo.

9 settembre 2008               luca ferro

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